Romania, Francia, Ungheria, Polonia, Italia: sono i paesi attraversati dal “Creole Performance Cycle”; Balletto Civile ha spostato periodicamente la sua sede, migrando da Cluj a Conques, da Budapest a Łódz, fino a Siena.
Ha portato con sé un bagaglio di tecniche e idee, che si sono subito trasformate in domande da fare ai luoghi, agli artisti incontrati, agli sguardi incrociati lungo la strada.
Un progetto da sviluppare accanto a quello che coinvolgeva gli artisti sul palco non poteva evitare il tentativo di proiettare il processo di creolizzazione nell’immagine fotografica.
Ciò significava, da una parte, documentare la trasformazione.
La fotografia in questo era portata ad assumere lo stile del reportage, la postura di un testimone che partecipa con lo sguardo alle dinamiche dell’incontro, si intrufola nella negoziazione, assiste alla creazione.
Testimoniare tuttavia non significa riportare la verità dei fatti, ma raccontarli da un punto di vista, necessariamente in connivenza con qualcuno.
Donandoci l’occhio del testimone, l’obiettivo della macchina fotografica ci chiede di prendere le parti di chi è coinvolto nel processo di creolizzazione, sentirne le tensioni. Gettandoci in mezzo alla contesa, ci pone accanto a qualcuno invitando a condividere l’attitudine e il bersaglio del suo sguardo.
Proiettare il processo di creolizzazione nell’immagine significava d’altra parte trasformare le forme della rappresentazione teatrale: pensare la fotografia come linguaggio che “parla” la scena, usa i suoi mezzi espressivi per fare altrimenti ciò che la scena fa mostrandosi.
La fotografia la spinge così verso la profondità del campo visivo, e ne prende il posto davanti allo spettatore, facendo scivolare quella porzione di mondo ritratto dalla “messa in scena” alla “messa in quadro”.
Quindi, se da una parte il processo di creolizzazione viene documentato, dall’altra la fotografia vi partecipa direttamente, per produrre visioni che imbrigliano le forze in gioco in un attimo, sulla superficie dell’immagine che è sempre su punto di esplodere.
Durante il viaggio, Balletto Civile ha giocato con le forme dell’immaginario delle diverse comunità con cui è venuto a contatto. Sulla scena, ha provato a indagarne i meccanismi, a scoprirne le ragioni.Ha tentato di trasformare l’immaginario in uno spazio scenico perché l’azione teatrale potesse incidervi.
Con il lavoro fotografico di Daniela Neri, l’immaginario – già mediato dall’azione scenica – torna all’immagine, per uno sguardo capace di ricostruirlo. L’immagine diventa l’ingrediente di una nuova memoria europea, lontana sia dall’archivio di bei panorami e stereotipi folklorici da collezionare, sia dagli obiettivi di un modello istituzionale di integrazione.
Le foto di Daniela Neri guardano da vicino, conservano le tracce dell’incontro fra forme di vita e seguono la forza sprigionata dagli atti artistici, che inevitabilmente mirano a dare un nuovo ordine alle cose: una nuova immagine del circostante.
L’atto creativo, però, si distende nel tempo e sfugge allo scatto. Allora, non c’è altra soluzione: per renderlo all’osservatore, la fotografia lo deve ricreare.La memoria racchiusa nelle foto, memoria della creazione, memoria dell’incontro, deve essere poi riattivata dallo sguardo dello spettatore.
Con un po’ di attenzione, seguendo le rime, fra le immagini esposte si può cercare la strada, ridisegnare il viaggio, le scadenze del suo itinerario, tappa per tappa. Nella mescolanza dei gesti, nell’intreccio dei punti di vista, lo spettatore può ricondurre a un luogo preciso ciascuno degli eventi che hanno scandito lo svolgimento del progetto; può riconoscere le singole identità dei partecipanti, osservarne la progressiva trasformazione.
Tuttavia lo sguardo è portato a compiere un doppio movimento: l’insieme indefinito di relazioni che si instaurano fra le foto esposte lascia allo spettatore il compito di operare una sintesi per superarne la singolarità e partecipare alla creolizzazione con il suo personale codice di interpretazione.
Il montaggio operato disegna la traccia di un’esperienza e la consegna alla memoria.
Camminando lungo i pannelli, lo spettatore incrocia i suoi passi con i percorsi delle identità, entra nel gioco delle interazioni, abita lo spazio in cui ha luogo la creazione, divenuta finalmente soggetto della visione.
PLAYING IDENTITIES/CREOLIMAGE è una mostra a cura di Daniela Neri e Stefano Jacoviello.
L’allestimento per Voci di Fonte è curato da Luca Baldini.