14 giugno: La quadratura del cerchio
Questa mattina a parlare sono subito i corpi: i corpi di Michela e Silvia, attivi dopo una buona dormita e un’ora di riscaldamento. Cominciano subito a lavorare a una sequenza che apra la performance: è una coreografia basata sulla relazione tra i corpi, alla scoperta dei propri pesi, mirata alla costruzione di una fiducia reciproca: allontanarsi dal baricentro, affidarsi all’altro e poi sostenerlo, cooperare. E’ una costruzione semplice, oggettiva, chiara, eppure molto faticosa. Ci racconta benissimo il lavoro di queste due operaie/artigiane: un lavoro di squadra, condiviso nello sforzo, partecipato. Silvia ci mette un po’ a entrare nel meccanismo: all’inizio qualcosa la blocca, ha bisogno di un po’ di tempo per abbandonare le resistenze, per fidarsi, per fare in modo che i ricettori del corpo sostituiscano le tribolazioni del cervello. Michela l’aiuta e Francesco, un collaboratore di Balletto Civile, interviene talvolta come occhio esterno, altre volte sostituendo Michela per permetterle di osservare la costruzione della sequenza. Si prova a inserire il canto assieme al movimento: il tappeto sonoro di Silvia su cui Michela improvvisa le prime note della melodia studiata ieri… ma appare ancora forzato, macchinoso. Un po’ perché è nella sua fase embrionale, ma forse non è questa la strada: magari questa azione deve svolgersi in silenzio, nella quiete del tempo del lavoro, scandito solo dal ritmo dei corpi. Marco porta il grande e lungo tavolo che occuperà la scena: Michela comincia a soppesarlo, danzarlo, “performarlo”. L’equilibrio è precario e, sempre in assenza di centro, il corpo sonda la nuova superficie: mentre Michela è la’ sopra mi vengono alla mente, nitidi, i corpi di Ramona e Romina sulla pedana “vibrante” di Cluj, o i ballerini ungheresi che percorrono come funamboli una fila fatta di taniche. E allora mi sembra che il cerchio torni, che tutto cominci a quadrare.
Mentre Michela e Silvia lavorano, le altre stanze del “Santa Maria” si stanno popolando del team di “Voci di Fonte”: tutti intenti a montare cavalletti, pannelli, a portare strumenti, per preparare l’ invasione temporanea di queste pareti centenarie. Nel pomeriggio si lavora alla fine della performance: resta l’idea che gli strumenti musicali costituiscano il volo, la vera ala della performance. Come in un atto liberatorio, in una fuga bacchica, i lavoratori abbandonano gli attrezzi del lavoro e li sostituiscono agli strumenti, mentre le donne si abbandonano a una danza dionisiaca. La danza sensuale, mediterranea e carnale di Michela, vera baccante si contrappone a quella eterea, fragile e ariosa di Silvia che si muove sullo sfondo. Nell’ombra, i musicisti seduti al tavolo da lavoro eseguono il loro valzer. Ora che l’inizio e il finale hanno trovato la loro atmosfera, il loro contesto, si tratta di cominciare a lavorare sul dettaglio e sullo sviluppo della performance. Domani si attende una prova costumi, e si tenterà anche una relazione concreta con il vero “materiale” del lavoro, i sacchi di mais da sgranare e riempire. Abbandoniamo il museo a tramonto inoltrato, mentre gli scrosci d’acqua di questo giugno impazzito colgono tutti impreparati, turisti e senesi. Sul tavolo della sala resta un saccone di mais ancora pieno. A ricordarci il lavoro, meticoloso e preciso, che ci attende domani.
13 giugno. Battiti di “Quorum”…
Raduniamo gli strumenti nella sala Sant’Anselmo del “Santa Maria della Scala” nelle prime ore del pomeriggio. Un assolato lunedì pomeriggio che “sfiacca” e colpisce i turisti radunati in Piazza del Duomo, ma che si fa ancor più insostenibile perché carico del silenzio dell’attesa: quella tensione che proviamo aspettando il respiro di sollievo dopo ventiquattro ore sul filo del rasoio, a sperare che il tanto tribolato quorum del referendum sia raggiunto… molti giornali la danno già una partita vinta, quella dei cittadini italiani, ma è meglio non cantare vittoria e aspettare i risultati ufficiali. Questa attesa, straniante e intorpidente, se avesse un ritmo e un suono, sarebbe quello del tappeto sonoro creato dai nostri artisti quando, nel rimbombo della vecchia corsia del “Santa Maria”, mostrano a Michela Lucenti il lavoro dei giorni precedenti. Giorni passati raccogliendo e collezionando materiali musicali, alcuni già vagliati da lunghe prove, altre appena abbozzati, altri ancora semplici suggestioni. Un vero e proprio archivio a cui la performance, nel costruire la sua ossatura, attingerà continuamente. Ma torniamo a quel tappeto che sa tanto di attesa: simile al battito irregolare di un cuore, multiforme e ultralinguistico, perché fatto di suoni e versi che oltrepassano i consueti codici del linguaggio, questo coro è insieme nostalgico e trepidante, malinconico e conturbante. Sul tappeto sonoro, intonato da tutto il gruppo che sembra aver già acquisito l’empatia necessaria alla coralità, si stagliano nitide le note di una melodia, prima intonata da Alessandro, poi improvvisata da Michela: un canto creato da Stefano, vero “dramaturg” musicale, sulla base di diversi canti della tradizione: sono cantate che narrano fatti di sangue e, dalla carnale sofferenza della melodia, lo si intuisce facilmente. Nessuna parola resta di quel canto, la melodia sola si fa’ spazio sicura, perché protetta dalle voci degli altri, un solido terreno a cui appoggiarsi. Forse, in una tappa come questa, dove la lingua non ha bisogno di negoziazioni, la vera sfida “creola” sta nella musica, nella melodia, nel coro delle voci che si fanno strumento, volo, “ala”. Forse la parola non dovrebbe comparire mai, nemmeno nel canto. Forse… I dubbi affollano le menti: Michela ascolta, vuole sentire tutto prima di parlare. E così, la piccola orchestra di “playing identities” sfodera i suoi assi nella manica: Emanuele e Stefano alla fisarmonica, Tommaso al mandolino, Alessandro alla chitarra e Marco ai “cucchiai”, che per l’occasione si prestano a far da percussioni. Si esegue un valzer, poi una polka. Sono i ritmi della festa, della liberazione, potrebbero essere l’espressione del volo, la vera “ala” dei “workers” di questa performance. Quel che è certo è il terreno scelto per questa creolizzazione: la musica e il suo linguaggio. Sembrano essere una chiave intelligente per una tappa che, altrimenti, avrebbe rischiato di non proporre sfide perché tutta giocata nella stessa squadra. Al termine del lavoro sul canto si lascia spazio al dibattito e molte idee – come sempre in questa fase spesso in contraddizione tra loro – emergono. Gli unici punti fermi sembrano essere alcuni elementi scenici e il loro immediato valore semantico: un video in cui scorre implacabile una sorta di borsa-valori; l’azione concreta, artigianale che gli si contrappone sulla scena (anche se ancora non si sa’ che tipo di azione/mestiere sarà); un lungo tavolo come spazio riservato al lavoro/espressione dei corpi; la musica come linguaggio deputato. In che modo il mondo artigianale del lavoro concreto, quotidiano e quello astratto del mercato, con i suoi numeri spesso così spietatamente lontani dalla realtà, debbano entrare in relazione ancora non si sa’: sarà guerra, contrasto, oppure una silenziosa tolleranza? Come sempre buttarsi nel lavoro pratico aiuterà a dare delle risposte. Mentre il dibattito continua il sole del pomeriggio scende e, una volta usciti all’aperto, un tramonto arancione si sta già stagliando sulla facciata del Duomo. Dalla gente, chiusa dentro i bar e o mentre passeggia per strada, lo veniamo finalmente a sapere: quorum raggiunto, il battito si placa, il respiro si fa più calmo… quasi il 57 per cento degli italiani è andato a votare: mente mi allontano verso la mia stanza penso alle parole partecipazione, condivisione, e per un attimo non mi sembrano abusate, usurate, ma nuove, esaltanti. Il teatro ne è sempre stato metafora, specchio critico: lo era anche oggi, quando un gruppo di persone in una stanza, assorbite per ore in esercizi musicali, riproducevano inconsapevolmente i battiti e gli spasimi di questa giornata particolare.